Nella regione autonoma dell’Inner Mongolia ed in prossimità del Deserto dei Gobi, in Cina, è stata inaugurata, domenica 14 settembre, una centrale eolica composta da 150 turbine ognuna delle quali ha una capacità di 10 MW con una struttura a matrice che rappresenta nel mondo la più grande mai realizzata.
L’impianto sarà gestito dalla Inner Mongolia Energy Group e sarà in grado di produrre ogni anno a regime 5,44 miliardi di kilowatt/h riducendo le emissione di anidride carbonica (biossido di carbonio) di 5 milioni di tonnellate/anno.
Infatti in Cina la “vexata quaestio“ ambientale ha assunto oggi una priorità di pari importanza a quella relativa all’energia e alla sicurezza alimentare ancorché alla gestione dell’approvvigionamento alimentare stesso.
Lo snodo epocale in questo paese, rispetto anche alla situazione globale, è di rifiutare l'idea della deindustrializzazione condizionata dall’ambientalismo ma di ragionare per una industrializzazione che sia governata dal driver della decarbonizzazione.
Questo è il principio regolatorio delle decisioni prese a livello centrale dal Presidente Xi Jinping nel 2020 con l’annuncio di due obiettivi: il raggiungimento del picco delle emissioni entro il 2030 che dovrebbe portare ad una situazione finale entro il 2060 ad emissioni zero.
Obiettivi ambiziosi considerando la genesi e la storia industriale, peraltro recente, della Cina. Secondo il NBS ( National Bureau of Statistics) l’output industriale della Cina è passato dal valore di 1,1 miliardi di dollari nel 1952 a 7 miliardi nel 2023. La Cina ha inoltre sviluppato le 41 maggiori categorie industriali secondo la classificazione dell’ United Nations Industrial classification.
Ciò sta a significare che, soprattutto a partire dagli anni novanta, in un periodo limitatamente circoscritto la Cina ha raggiunto la vetta produttiva nel mondo.
Tempo breve e spinta produttiva in nome dello sviluppo e al fine di soddisfare la domanda mondiale non poteva che procurare un alto tasso di inquinamento sia dell’aria che in particolare delle falde acquifere. A questo proposito l’IPE Institute of Public Environment nel 2006 aveva monitorato il 28% delle falde acquifere con il risultato che circa 300 milioni di persone non avevano un sufficiente livello di purezza delle acque utilizzate per scopo alimentare con conseguenti implicazioni di patologie in alcune province cinesi.
Anche la qualità dell’aria era preoccupante in quanto nel 2013 sempre l’IPE aveva riscontrato, per esempio a Pechino, una concentrazione di PM 2,5 di sostanze inquinanti di 89.5 microgrammi per m3 mentre la direttiva dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ne stabiliva 10 microgrammi per m3.
Già nel 2022, sempre Pechino, anche per i risvolti pandemici occorsi in quei momenti, aveva progressivamente migliorato con una concentrazione PM 2,5 di 30 microgrammi per m3 ed il pesante inquinamento ridotto da 58 giorni l’anno a tre. Un dato da non trascurare è quello del pil cinese che nell’arco di un decennio per accumulo si era incrementato del 70%.
Questi numeri fanno comprendere come il rapido sviluppo abbia provocato una alterazione ambientale tenendo anche presente che la rapida urbanizzazione con la conseguente realizzazione di infrastrutture di comunicazione e la irrefrenabile corsa dell’immobiliare ha costretto acciaierie e cementifici a spingere al massimo la produzione incluso le vetrerie, uno dei settori produttivi più inquinanti.
Se questa è stata la pars destruens, va analizzata anche la pars costruens della decarbonizzazione. Quanto è successo negli ultimi anni pre e dopo covid ha dimostrato la reattività decisionale della Cina che ha modificato strada facendo la propria strategia correlata alla propria identità produttiva.
Overcapacity, dazi e battaglia tecnologica hanno infatti creato in Cina un humus che è stato la premessa costitutiva di una politica dell’utilizzo delle tecnologie a basso impatto ambientale, allo sviluppo delle auto elettriche, alle energie rinnovabili ed ad una massiccia riforestazione, il tutto sintesi di una avviata e attenta conciliazione tra ambiente e produzione.
Alcuni dati confermano questo trend; nell’ambito dell’energia pulita la Cina è il maggior investitore con 625 miliardi di dollari investiti nel 2024 pari al 31% dell’importo globale equivalente a 2 triliardi di dollari secondo quanto pubblicato nel corrente mese di settembre dall’Energy Transition Review.
Così come è leader negli investimenti di elettrolizzatori per la produzione di idrogeno a basse emissioni occupando il 60% della capacità produttiva mondiale (IEA- Agenzia Internazionale dell’Energia).
Ma Jun, ricercatore con esperienza ventennale in IPE, ha dichiarato che la Cina “è determinata a mantenere un esteso sistema industriale e nel contempo a controllare il livello di inquinamento e di decarbonizzazione dell’economia”.
La transizione ecologica non è un processo senza ostacoli: cento milioni di tonnellate di anidride carbonica sono stati prodotti direttamente da quaranta impianti di fotovoltaico nel 2024.
L’industria EV necessita di enormi quantitativi di acciaio, vetro e in particolare di terre rare; la biodiversità dei corsi d’acqua non ha ancora raggiunto un livello di sufficienza come nello stesso Yangtze River ma il percorso è tracciato.
Sappiamo anche che il vantaggio competitivo cinese è giunto tardi; le problematiche ambientali e, in primo luogo la raccolta dati, erano iniziate negli Stati Uniti nel secondo dopoguerra dove il libro Primavera silenziosa di Rachel Carson era stato pubblicato nel 1962 quale testimonianza di una situazione ambientale che aveva già iniziato a deteriorarsi. La completezza dei dati contenuti ne è prova.
In uno dei capitoli scriveva: “La gravità del pericolo viene sottovalutata; è infatti un tratto caratteristico della natura umana quello di sottovalutare tutto ciò che costituisce una minaccia per il lontano futuro”. ( pag. 191). (riproduzione riservata)