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Politica

Nella Cina dei bassi consumi i brand stranieri perdono quota

In 25 anni la quota di mercato dei brand cinesi, che all'inizio del secolo era di pochi punti percentuali, ha raggiunto e superato, in qualche caso, quella dei prodotti importati. Quindi per le multinazionali la conquista di nuove posizioni o la difesa di quelle acquisite diventa sempre più difficile. E per le pmi?


10/11/2025 15:19

di Marco Leporati*

settimanale
Un'auto di Xiaomi, brand cinese emergente

Nel 2000 i brand stranieri presenti sul mercato cinese dei beni di largo consumo detenevano una quota di mercato mediamente tra il 15% e il 20%; oggi, un quarto di secolo dopo, i brand cinesi hanno raggiunto lo stessa quota di mercato e, in qualche caso, superata.

È il dato stupefacente evidenziato da Daniel Chng, professore di Strategia e Entrepreneurship alla Ceibs (China Europe International Business School), durante un seminario organizzato dalla stessa università in concomitanza dell’ottava edizione di Ciie, la fiera internazionale dell'import, che si è conclusa il 10 novembre a Shanghai.

La conclusione è evidente: la conquista del territorio dei consumi cinesi si fa sempre più difficile per i brand stranieri, soprattutto in un contesto in cui il mass market è sostanzialmente fermo o addirittura in calo, per certi prodotti.

Il segnale più evidente è quello dell’automotive che ha avuto come market leader per trent’anni case automobilistiche straniere con produzione locale e in parte con auto importate: quota di mercato del 15% mentre i produttori cinesi avevano il 2,3%. Ora Tesla, Wolkswagen e le altre case automobilistiche si trovano in ritirata con un solo 5% a contrastare i nuovi brand cinesi, in primis Byd, con una quota del 31%.

L’abbigliamento sportivo è un altro dei settori che ha perso quote di mercato. Nel 2020 gli stranieri detenevano il 26% a fronte a fronte del 14% dei cinesi; oggi il mercato si è praticamente pareggiato.

Per quanto riguarda l’Italia nel settore più ampio dell’abbigliamento si è registrata una diminuzione delle esportazioni con una punta nella moda maschile del 18,4% nei primi sette mesi dell’anno, e solo quattro marchi stanno riscuotendo un buon successo: Cucinelli, Prada e Moncler cui va aggiunto Otb di Renzo Rosso.

Altro settore molto significativo è quello del beverage: sempre nel 2020 la quota di mercato di marchi stranieri era del 36% mentre quella cinese era del 3%. Oggi la situazione si è quasi capovolta: quota straniera 14%, quota cinese 32%.

La percezione è che, in un mercato saturo, si stia producendo un cambio nell’atteggiamento dei consumatori cinesi in una cornice di forte digitalizzazione, dove la strategia di vendita omnichannel coinvolge tutte le componenti fisiche e digitali per offrire al consumatore una personalizzazione del prodotto.

Il case history dell’azienda coreana di occhialeria Gentle Monster i cui prodotti per definizione sono per "Asian by Asian” è esemplificativo. Il prezzo standard di vendita è di 250 ero e la società  sta sviluppando velocemente i rapporti con i giovani consumatori esclusivamente attraverso i social media come Weibo e Xiaohongshu. Nell’attività di cobranding ha collaborato anche con Moncler.

Il dilemma è quale scenario si presenterà e quali le soluzioni per i prossimi anni. Il prof. Chng ha elaborato un modello adatto alle multinazionali per affrontare il futuro con tre opzioni strategiche.

Il primo a basso rischio e bassa importanza con player quali Costco, la cui direttrice è quella di attirare i consumatori cinesi con prodotti importati ad un value for money nell’ambito di un gruppo identitario (la card di ammissione ed i relativi benefici/ vantaggi); oppure Ikea con operazioni gestite in flessibilità con partners locali o un saldo mercato di nicchia quale per Rolex.

Il secondo, a basso rischio ad alta importanza con visibilità e innovazione seguente il mantra dell’investimento continuo avendo considerato la Cina come core market: L’Oreal nel settore cosmetici è la miglior rappresentazione avendo sviluppato marchi cinesi come Yue Sai e Mininurse, molto apprezzati dalle giovani consumatrici cinesi.

il terzo ad alto rischio con prospettiva di cambiamento o di abbandono (Microsoft e più recentemente il caso di Starbucks). Infine opzione strategica ad alto rischio avendo considerato la Cina come key market con investimenti strategici: esempi sono Apple ed Nvidia.

Se questa classificazione vale prevalentemente per le grandi multinazionali quale può essere la strategia per le medie imprese, tipiche del tessuto imprenditoriale italiano?

In questo incerto sentiero dei consumi in Cina va tenuto presente il livello di spesa individuale o familiare che necessita di un soffio vitale che Micheal Spence, Nobel nel 2001 nell’economia e speaker in una delle sessioni della Ciie, ha ritrovato nella stabilizzazione del settore immobiliare e del settore finanziario ad esso collegato. Infatti, non è certo il lieve incremento dei prezzi al consumo dell’ottobre scorso che può confermare una maggiore disponibilità alla spesa.

Il settore immobiliare ed il mercato immobiliare sono stati i volani per creare quel surplus di spesa da parte dei consumatori cinesi che ha permesso lo sviluppo del mercato cinese, diventato attraente per le multinazionali straniere. Oggi entrambi sono asfittici e non consentono di creare il surplus di spesa.

Per di più va tenuto nel conto l’aspetto produttivo delle imprese cinesi correlate alle esportazioni e alle problematiche della sovraproduzione e dei sussidi: tema che è stato affrontato da Pascal Lamy, ex direttore del Wto nelle sue considerazioni su geoeconomia e geopolitica, ricordando la teoria del vantaggio comparativo di Ricardo.

Il messaggio finale è che in Cina bisogna esserci e saper comprendere le leve che possono determinare il successo in un momento dove le frizioni soprattutto tra Cina, America ed Europa sono quotidiane ed influenzano lo sviluppo di nuove iniziative. Lamy ha concluso che non servono atteggiamenti protezionistici ma un orientamento precauzionale è necessario. (riproduzione riservata)

* corrispondente da Shanghai, dove vive e lavora da 30 anni

 

 

 


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