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Politica

Pechino cerca nuove vie per crescere, l'export non basta più

Esportare prodotti di largo consumo, auto elettriche ed elettronica, ai livelli record come è stato quest'anno, sarà più difficile, ma i nuovi driver che possano far fronte alla sfida mondiale, dazi compresi, non sono a portata di mano, perché la crisi dell'immobiliare e i bassi consumi deprimono il clima economico


15/12/2025 11:07

di Marco Leporati*

settimanale

Nell’annuale Conferenza di fine anno sui temi economici, organizzata la scorsa settimana dal Comitato Centrale del Partito Comunista cinese e dallo State Council, massimo organo di governo di Pechino, il messaggio diramato può essere sintetizzato nel pensiero di “rafforzare le nostra capacità per far fronte alla sfida mondiale”.

«Dobbiamo considerare che quest'anno, anticipando la guerra commerciale, l’approccio era stato più concentrato su misure emergenziali. Ora, in prospettiva dell’avvio del XV° Piano quinquennale vanno identificati nuovi driver che possano trasformare l’economia», ha decodificato il messaggio Ding Shuang, chief economist di Standard Chartered di Cina e Apac.

Questo postulato deriva dal fatto che la Cina nei primi undici mesi dell’ anno ha superato per valore nel surplus commerciale un trilione di dollari americani, risultato delle esportazioni diversificate su tutti i mercati. Nonostante che l’export verso gli Stati Uniti sia diminuito del 29% si sono avuti aumenti consistenti su altre linee: in particolare l’Europa è cresciuta del 10-15%, l’Africa 20-25% e l’intra Asia il 6-8%.

Ma non si può comprendere il risultato che ha stupito la comunità internazionale ed è stato anche fonte di critiche senza misurarsi con i valori dei container movimentati dai porti cinesi verso le diverse destinazioni del mondo. Non esiste nessun paese nel mondo, considerato produttore di beni delle diverse categorie merceologiche che nel 2024 (dati pubblicati in questi giorni a consuntivo) abbia movimentato dai suoi porti 170 milioni di teu (l'unita di misura dei container)

Basti pensare che il porto di Shanghai, al 26 novembre scorso, aveva già movimentato 50 milioni di teu, quasi come nell'intero 2024 (50,5 milioni). Il porto di Ningbo-Zhoushan ne ha mossi per lo stesso periodo 40 milioni. Complessivamente solo questi due porti hanno avuto una crescita del 18% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Il totale Cina, anche considerando i transhipments verso il sudest asiatico utilizzati verso Paesi che non sono coinvolti con gli Stati Uniti in tariffe daziarie così pesanti come per la Cina, raggiungerà se non supererà i volumi del 2024.

Oggi più di ieri le logiche geoeconomiche, soprattutto in questo ultimo periodo sono profondamente mutate e mai come ora ci si rende conto che l’Occidente, in particolare Europa e Stati Uniti, si è impoverito del tessuto manufatturiero.

Anche a seguito delle sollecitazioni del Fondo Monetario Internazionale, la Cina il cui consumo procapite come componente del Pil vale oggi il 39%, dovrà nella prossima decade raggiungere il 61%. La domanda è come farà a raddoppiare la classe media oggi di 400 milioni di persone e domani di 800 milioni.

Molte perplessità vengono espresse da economisti occidentali, tra cui Eswar Prasad, professore emerito alla Cornell University nello stato di New York, sulla percorribilità dii questa strada, a breve termine. 

In primo luogo il modello sin qui utilizzato del credito che alimenta gli investimenti non è più attuale e ne vediamo i risultati obbligando la Cina ad esportare per tentare di ridurre lo sbilanciamento tra la produzione ed i consumi domestici; il tasso di cambio dello yuan ne è conseguenza diretta.

Il tallone di Achille cinese è quello di cui si è sempre narrato nel recente passato: consumi interni deboli, il persistere della crisi nel settore immobiliare, sanità e trattamenti pensionistici.

Anche lo stesso Presidente Xi Jinping ha evocato in una recente intervista sulla rivista del Partito comunista Qiushi, l’eccessiva competizione industriale - «dobbiamo impedire di precipitare in una bolla economica» ha detto - e ha paventato,  chiamandola involuzione, le misure che si rendono necessarie per limitare la guerra dei prezzi associata alla sovraproduzione.

Il Financial Times ha puntualizzato la situazione rilevando che nei flussi della domanda la Cina non ha necessità di importazioni tranne che per materie prime, energia e prodotti agricoli, mentre l’output cinese è imprescindibile per i Paesi occidentali. Infatti nella Conferenza di fine d'anno si è parlato anche di come incrementare le importazioni.

La manifattura globale è cresciuta del 14%, buona parte prodotta in Cina, dominata dall’elettronica, telefonia, batterie, chips, prodotti farmaceutici e prodotti dual-purpose quali i droni mentre il settore automotive si è contratto del 4%.

Prova ne sia che l’elettronica è al centro di una forte domanda da parte dei consumatori come per esempio si evince in Italia dal recente rapporto Censis, analisi che vale per altri Paesi dal momento che ormai le logiche del consumatore globale sono permeate dagli stessi bisogni indotti. Per il resto, nella categoria dei beni di largo consumo, il potere di spesa è molto limitato come nel caso dell’abbigliamento e quindi l’orientamento del consumatore è rivolto al fast fashion.

Questo scenario controverso continuerà sino a quando il ciclo della globalizzazione non riuscirà a troverà un nuovo assetto corrispondente alle incerte evoluzioni politiche. (riproduzione riservata)

* corrispondente da Shanghai, dove vive e lavora da 30 anni


 


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