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Azienda Manifatturiero

Perde quota nel mondo l'abbigliamento made in China

La quota cinese nelle esportazioni globali è scesa dal 54% nel 2010 al 41% nel 2023, secondo un report di Coface, l'agenzia francese per il credito all'esportazione. E con i dazi introdotti da Trump sarebbero ancora più favoriti altri paesi del sud-est asiatico a scapito del Dragone


10/07/2025 17:22

di Mauro Romano - Class Editori

settimanale
Abbigliamento firmato Shein, proposto sulle piattaforme a meno di 10 euro

Sebbene la Cina rimanga il principale esportatore mondiale di abbigliamento, il suo dominio si sta indebolendo, con la quota cinese nelle esportazioni globali che è scesa dal 54% nel 2010 al 41% nel 2023. Il predominio del Dragone è stato ammaccato dall'aumento dei costi, dai vincoli normativi e da una specializzazione poco redditizia, spiegano gli analisti di Coface all'interno di uno studio sul settore. Inoltre, Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e la sua politica commerciale aggressiva potrebbero accelerare la diversificazione delle catene di approvvigionamento favorendo in particolare alcuni Paesi del sud-est asiatico.

Il modello economico cinese è basato sulla subfornitura per marchi occidentali, attività manifatturiere molto poco remunerative. Di conseguenza, nonostante il peso significativo in termini di numero di aziende (19% del totale globale), gli operatori cinesi hanno generato solo il 10% dei profitti del settore tra il 2020 e il 2024. La perdita di competitività è inasprita dalla crescita continua dei salari (+6% all'anno in media dal 2010) e da nuovi vincoli normativi, in particolare ambientali, che aumentano i costi di produzione. Tutti segnali che il modello cinese sta perdendo slancio in un contesto di crescente concorrenza globale.

Per quanto riguarda la politica tariffaria degli Stati Uniti e il suo impatto, in un primo scenario in cui tutti i partner commerciali degli Usa sono soggetti a dazi del 10%, ad eccezione della Cina penalizzata più pesantemente, i Paesi meglio posizionati per acquisire quote di mercato sono Bangladesh, Cambogia, Pakistan e Vietnam, spiega Coface. L'India, al 6* posto, potrebbe anch'essa beneficiare dello sviluppo del vasto mercato interno. Inoltre, la rilocalizzazione post-Covid potrebbe favorire Paesi come Albania e Georgia in Europa, ed El Salvador per il mercato statunitense.

In un secondo scenario, l'amministrazione americana introduce dazi differenziati, in linea con le aliquote reciproche annunciate ad aprile e poi sospese. Tali tariffe non sarebbero sufficienti a cancellare il vantaggio competitivo del Bangladesh, che nonostante un tasso elevato (37%), subirebbe un impatto limitato grazie alla poca dipendenza dal mercato statunitense e ai forti legami con l'Unione Europea, spiegano gli esperti. Al contrario, Paesi come Vietnam, Lesotho e Giordania perderebbero maggiore competitività. Gli Stati europei, invece, beneficerebbero di un vantaggio relativo, con dazi più bassi e minore esposizione nei confronti degli Stati Uniti - a meno di un improvviso aumento al 50%, come minacciato da Donald Trump a fine maggio. (riproduzione riservata)


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