MENU
Industria

Per la Cina è il Nuevo Leon (Messico) la frontiera dell'export

Con l'occhio rivolto, ovviamente, al mercato statunitense, dove finiscono i prodotti finiti dei semilavorati che approdano in Messico per un totale di 475 miliardi di dollari. Ma ora anche questo paese ha alzato i dazi e per le imprese cinesi i ritorni non saranno quelli sperati


13/02/2024 12:48

di Marco Leporati*

settimanale
Monterrey, capitale del Nuevo Leon

Un tempo la linea di confine tra Messico e Stati Uniti era rappresentata dal fiume Rio Grande (in Messico Rio Bravo), fonte dell’immaginario collettivo della filmografia di genere western e della letteratura di Corman McCarthy.

Oggi il Messico è considerato la porta d’Oriente degli Stati Uniti. Gli ultimi dati mostrano che le esportazioni dal Messico verso gli Stati Uniti sono risultate superiori a quanto esportato dalla Cina con un tratto in comune: buona parte delle società manufatturiere in Messico sono in prevalenza a capitale cinese.

Questo fenomeno di re-shoring cinese in Messico aveva avuto inizio quando, sotto la Presidenza Trump, erano stati introdotti in maniera corposa nel 2018 dazi aggiuntivi pari al 25%  per i prodotti importati dalla Cina con l’obbligo della stessa di acquisto di commodities agricole per un valore di 200 miliardi di dollari.

Questa lunga battaglia è continuata negli anni successivi con un azione cinese di pari entità per i prodotti americani. La controffensiva nello stesso tempo ha portato la Cina a costruire un modello di esportazione che potesse essere attrattivo per le aziende americane: stessi fornitori, riduzione dei costi e dei tempi di trasporto utilizzando persino il concetto di ultimo miglio ma su suolo messicano.

Durante il periodo pandemico e soprattutto in questo momento con la crisi del Mar Rosso con il canale di Suez e delle difficoltà di transito del canale di Panama per scarsità idrica l’alternativa sta funzionando bene.

Alcuni dati particolarmente significativi confermano questa tendenza: le esportazioni dalla Cina verso gli Stati Uniti (13,9% nel 2023) sono risultate le più basse degli ultimi vent’anni, e si confrontano con il 21,6% del 2017, prima della Trade war, e il 16,3% del 2022.

Il valore complessivo dei beni spediti negli Stati Uniti dalla Cina è precipitato l'anno scorso del 20,3%, rispetto 2022, a 427,3 miliardi di dollari, mentre l'export verso il Messico è cresciuto del 4,6% a 475 miliardi di dollari. Per completare il quadro l'export cinese in Canada è stato di 421 miliardi di dollari, l'anno scorso.

È difficile quantificare nei dettagli le commodities, ma è certo che gran parte di di quei 475 miliardi sono semilavorati che vengono poi assemblati successivamente in Messico, nel comparto automotive, arredamento, elettrodomestici per la casa, elettronica ed abbigliamento.

Nel 2020, anno di esplosione della pandemia, Stati Uniti, Canada e Messico avevano sottoscritto un accordo trilaterale per la creazione di una zona franca nella quale era stato stabilito  che il 75% dei componenti destinati ad auto ad uso privato  e a veicoli leggeri di trasporto potevano essere prodotti nell’area di pertinenza dell’accordo in esenzione di dazi.

Questo accordo, denominato con l'acronimo USMCA, era stato ben considerato dalle società cinesi e aveva creato qualche frizione con le industrie locali in quanto, pur non essendo società a controllo  messicano, potevano beneficiare dell’accesso al mercato statunitense.

A farla da padrone è il settore automotive con i diversi clusters costituiti da società europee e giapponesi oltre a quelle americane cui si sono aggiunti gli investimenti cinesi  per catene di fornitura prima dalla Cina e ora nel Messico per gli stessi clienti. Le esportazioni dalla Cina verso il Messico erano cresciute nel 2018 del 35% sino ad arrivare nel 2021, dopo l’imposizione dei dazi, al 48%.

Nei due anni succesivi il valore di questi beni ha avuto una crescita media del 14% secondo i dati della Dogana cinese (GAC – General Administration of Custom). Per i volumi la crescita è stata di 2.6 volte nel 2023 comparata al 2017.

Un capitolo riguarda le batterie al litio, cresciuto nel 2018 del 35% anno su anno, del 32% nel 2021 e dell’11% nel 2022: il calo delle esportazioni trova ragione nel fatto che recentemente sono state create unità produttive direttamente in Messico con approvvigionamento da miniere locali.

Questa abbondanza di dati significa semplicemente che si sono modificati i flussi ma quantitativamente la Cina ha sempre esportato.

Uno dei clusters più importanti, distante dalla capitale Città del Messico, è il distretto di Nuevo Leon dove la Cina ha investito il 48,3% dei FDI (Foreign direct investements) totali in Messico, in particolare a Monterey, la capitale, uno dei principali hub per multinazionali a partire da Tesla.

Se la filosofia degli investimenti deve essere quella di mantenere una facile posizione di accesso al mercato (in questo caso americano) e di seguire i maggiori clienti della supply chain, questo risultato è stato ottenuto: invece di re-shoring è stato coniato il termine near-shoring. «Non si parla di deglobalizzazione. È il passaggio successivo della globalizzazione concentrato su networks regionali», aveva specificato al New York Times Michael Burns, partner di Murray Hill Groups, società di investimento in supply chain.

Tra Messico e Cina esiste, ovviamente, anche una zona d’ombra. Infatti nello scorso mese di agosto, il Messico ha incrementato i dazi mediamente tra il 5% ed il 25% su 392 prodotti per i Paesi con i quali non ha accordi di libero mercato, e la Cina è uno di questi. Questa decisione colpisce il 90% dei prodotti cinesi.

Considerando che a questi dazi vanno aggiunti i maggiori costi di esercizio nella gestione delle imprese si prospettano per le imprese cinesi ritorni incerti, ma, considerando la situazione geopolitica, il Messico resta un “place to be”.

L’anno del Drago, appena incominciato, dovrebbe essere considerato un buon anno, ma le incertezze sono sempre dietro l’angolo come dimostra, anche se marginale rispetto al contesto mondiale, l’esito dello sticker estratto nel tempio di Hong Kong che declinava una neutralità finanziaria.

Ciò non significa che altri Paesi potranno stravolgere dal punto di vista della supply chain l’organizzazione cinese costruita meticolosamente in questi venti anni ma ogni Paese e ogni impresa deve trovare l’anello di congiunzione per mantenere la propria identità e la propria redditività con risultati di bilancio positivi. (riproduzione riservata)

* presidente di Savino del Bene Shanghai Co. Vive e lavora a Shanghai da 30 anni


Chiudi finestra
Accedi