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Politica

Per il 57% delle imprese italiane in Cina, restare è strategico

L'annuale sondaggio della Camera di commercio italiana nella Repubblica popolare ha evidenziato che soltanto il 39% delle imprese italiane in Cina ha raggiunto nel 2022 gli obiettivi messi a budget per l’anno, mentre ben il 61% non ha raggiunto i KPI in termini di fatturato


27/04/2023 12:15

di Mauro Romano

Cina
Paolo Bazzoni, presidente della camera di commercio italiana in Cina

Soltanto il 39% delle imprese italiane in Cina ha raggiunto nel 2022 gli obiettivi messi a budget per l’anno, mentre ben il 61% non ha raggiunto i KPI in termini di fatturato – tra questi quasi il 18% ha chiuso l’anno in perdita. Ad aver sofferto maggiormente sono state le aziende dell’agroalimentare, del design e in generale tutte quelle realtà legate al retail e ai beni di consumo.

Mettendo a confronto il 2022 con il 2021, quasi metà delle nostre aziende ha subito una diminuzione delle entrate, e oltre un terzo ha avuto una contrazione superiore al 30%. I dati emergono dal quarto rapporto della Camera di commercio italiana in Cina sullo stato di salute delle imprese italiane nella Repubblica popolare. All’indagine ha partecipato il 70% delle aziende associate alla Camera al marzo 2023 (310 risposte, con un leggero incremento rispetto all’ultimo sondaggio condotto a luglio 2022).

Tra le principali sfide a cui le imprese hanno dovuto far fronte c'è stata la frammentazione della catena di approvvigionamento. Se le problematiche legate alla logistica si sono fortemente attenuate rispetto al 2021, con un generale miglioramento, soprattutto nel trasporto via mare, i costi legati alla "supply chain" sono però generalmente aumentati rispetto all’epoca prepandemica.

I dati dello scorso luglio erano piuttosto allarmanti: il 60% delle aziende italiane aveva registrato un aumento dei costi pari al 60%, e per il 40% il rincaro superava il 50%.

A marzo 2023, all’indomani quindi dell’emergenza pandemica, il 69% delle aziende dichiara comunque un aumento dei costi della catena di approvvigionamento pari ad almeno il 30%. Il rincaro dei costi della "supply chain" continua dunque, ancora oggi, a incidere negativamente sul bilancio delle nostre aziende.

Nonostante l’aumento dei costi, la grande maggioranza non ha attuato modifiche alla "supply chain" (67%) e non sta considerando alcuna ristrutturazione, il 26% ha deciso di localizzare parzialmente o totalmente la catena di approvvigionamento, mentre il 6% ha preferito diversificare servendosi dei Paesi Asean a sostegno del mercato cinese.

Le aziende italiane per la maggioranza considerano complessa e poco favorevole una completa ristrutturazione del proprio sistema produttivo in Cina. Una delle ragioni principali è da individuare nella composizione della filiera di acquisti: ben il 62% delle imprese italiane acquista materie prime in Cina, di queste il 44% si avvale di prodotti cinesi e importa dall’Italia solo alcuni componenti chiave. Il 23% acquista per metà in Cina e per metà in Italia, mentre circa l’11% importa totalmente dall’Italia o da altri Paesi.

La Cina continua, dunque, a essere la fonte primaria di approvvigionamento per le aziende italiane, per servire un mercato interno altrettanto importante, in una logica di produzione “in Cina per la Cina”.

La Cina continua a essere comunque nel breve termine “the place to be” per più della metà delle nostre aziende localizzate (57%). Il 24% è ancora incerto, mentre il 19% ha deciso di diversificare.

Il 13% punta ad altri mercati, Asean e non, per ulteriori investimenti. Solo il 3% ha deciso di uscire dal mercato cinese. Tra i nuovi Paesi di investimento il 24% investe in Vietnam, il 16% in India e Thailandia – nuovi poli attrattivi per un costo minore della forza lavoro, un miglioramento delle infrastrutture, unito a un sistema di dazi favorevole, e una più lieve tensione geopolitica. (riproduzione riservata)


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