«La Cina da qui al 2049, cioè a 100 anni dalla creazione della Repubblica popolare cinese, vuole tornare a essere al centro del mondo, così come era 3.000 anni fa. Sostanzialmente, la Cina vuol essere il primo paese. E per fare questo ha bisogno di alcuni requisiti. Numero uno: uno sviluppo economico che non scenda ogni anno almeno sotto il 4,5-5%, perché questo creerebbe tutta una serie di problemi sotto il profilo occupazionale. Gli 11-12 milioni di giovani che ogni anno si riversano sul mercato lavoro non troverebbero occupazione e questo destabilizzerebbe il regime. Ma per fare questo devono progredire sotto il profilo tecnologico e sotto il profilo militare».
Lo ha detto Ettore Sequi, ambasciatore d'Italia in Cina dal 2015 al 2019 e già segretario generale della Farnesina, ai microfoni di Class Cnbc, spiegando che «per quanto riguarda la tecnologia, l'intelligenza artificiale sappiamo che si basa sul dato. E vediamo tre macrosistemi. Nel macrosistema americano, il dato è proprietà delle big tech, in Cina il dato è proprietà del governo e all'Europa resta un ruolo regolatorio. La Cina ha capito perfettamente che gli Stati Uniti vogliono ostacolare questa rincorsa tecnologica, perché oltretutto ha delle implicazioni anche di carattere militare. Per cui i cinesi hanno capito che devono sviluppare la propria tecnologia».
«Quello che noi vediamo è che gli Stati Uniti restano avanti certamente oggi sull'hardware di frontiera, per esempio semiconduttori avanzati, e la Cina avanza molto velocemente sulle applicazioni, sfrutta il mercato interno, l'iCloud di Alibaba e i chip domestici che sono prodotti da Huawei. Questo crea, da un punto di vista tecnologico, quella che chiamerei una bipolarità imperfetta, cioè gli Stati Uniti mantengono il primato, la Cina riduce la dipendenza e tende a costruire un ecosistema tecnologico che possa sempre più essere autonomo», ha aggiunto.
«Donald Trump ha in qualche modo favorito la crescita del soft power cinese con la sua imprevedibilità e il suo ricorso a dazi, talvolta imprevedibili, talaltra utilizzati non per riequilibrare lo squilibrio commerciale degli Stati Uniti, ma anche come arma geopolitica, per esempio con l'interruzione delle attività di cooperazione con i Paesi in via di sviluppo. Quindi, sostanzialmente, la Cina si vuole porre come Paese responsabile, Paese prevedibile, Paese multilateralista».
Secondo Sequi, «la parata militare che commemora la fine della Seconda Guerra Mondiale in Asia, l'80* anniversario, vuole porre la Cina come Paese capace, potente, che ha avuto un ruolo in passato e che oggi si presenta come un Paese potente. E proprio per questo vuole poter avere un ruolo nel plasmare quelli che sono gli equilibri futuri della geopolitica e della geoeconomia».
«Siamo in un momento di disordine mondiale», ha continuato l'ex ambasciatore in Cina, «quello che noi vediamo in questo momento è il passaggio da un ordine, che è ancora quello plasmato dopo la Seconda Guerra Mondiale dagli Stati Uniti e dall'Occidente, a un nuovo ordine che gli Stati emergenti - dalla Cina all'India, gli Stati del cosiddetto Sud globale, i Brics - vogliono plasmare, affinché tenga conto anche delle loro esigenze. Quali sono queste loro esigenze? Innanzitutto, un maggiore peso nelle decisioni, per esempio economico-finanziarie, mondiali.
«Sappiamo che si parla di de-dollarizzazione, ci vorrà probabilmente ancora un po' di tempo, ma è il segno del fatto che questi Paesi del Sud globale vogliono contare di più e vogliono essere attori e non soltanto parti passive nelle decisioni geopolitiche e geo-economiche attuali», ha proseguito Sequi.
«L'Europa ha un ruolo sulla scena globale e deve essere convinta di averlo questo ruolo», ha detto in proposito, «innanzitutto, noi parliamo di un mercato ampissimo e che è molto ambito dagli Stati Uniti, e dalla stessa Cina, ma anche dall'India. Quindi, sotto questo aspetto, certamente l'Europa ha un ruolo. In secondo luogo, l'Europa è una potenza regolatoria ma anche una potenza tecnologica. Qual è il problema? I problemi sono due. Il primo è la frammentazione. Per quanto riguarda la frammentazione politica, vediamo che oggi l'Europa purtroppo è bloccata da meccanismi decisionali che, per le questioni più importanti che vanno dalla difesa, alla politica estera e così via, richiedono l'unanimità. E spesso l'unanimità non è possibile».
«Il secondo problema è sempre quello della frammentazione, però calata nel cattivo utilizzo a livello di macrosistemi dei fondi che, tutto sommato, non mancano. Vediamo una frammentazione sotto il profilo della ricerca tecnologica, della politica di difesa e così via; si tratta di superare questo tipo di problemi perché questo è percepito all'esterno, dagli Stati Uniti, ma anche dalla Cina e dagli altri, come un fattore intrinseco di debolezza».
«I cinesi tentano sempre di bilateralizzare il rapporto con l'Europa, anche nei negoziati sui dazi o commerciali, perché sanno perfettamente che in questo modo l'Europa è più fragile. Se prevalesse la consapevolezza, e anche rinunciando a qualcosa, saremmo comunque più autorevoli come interlocutore e persino come competitor. E a questo punto probabilmente la situazione cambierebbe. Ma il problema è quello della frammentazione», ha concluso. (riproduzione riservata)