Oggi, la Cina è l’unica vera superpotenza manifatturiera del mondo. La sua dimensione, velocità ed efficienza la rendono un luogo estremamente attraente per la produzione e l’approvvigionamento di beni. Per anni, questa forza ha contribuito ad alimentare la crescita globale. Ora, tuttavia, sta anche generando crescenti tensioni economiche e politiche.
Queste tensioni emergono chiaramente dai dati sul commercio. Nel mese di novembre, il surplus commerciale cinese ha superato per la prima volta i 1.000 miliardi di dollari. Le esportazioni verso l’Europa, l’Australia e il Sud-Est asiatico sono aumentate, poiché i dazi statunitensi hanno spinto i prodotti cinesi verso altri mercati. L’Europa ha percepito questo cambiamento in modo particolarmente marcato.
Il disavanzo commerciale dell’UE con la Cina si è ampliato fino a circa quattro container in entrata per ogni container in uscita; nel 2019 la proporzione era meno di tre a uno. Nei primi sette mesi dell’anno, le esportazioni cinesi verso l’Europa sono cresciute del 9% in termini di container, mentre quelle europee verso la Cina sono diminuite dell’8%.
Le esportazioni cinesi hanno continuato a guadagnare terreno nel Mercato Unico europeo, anche grazie ai progressi tecnologici e qualitativi in alcuni settori industriali — in particolare quelli legati alla transizione verde e alla manifattura avanzata — che hanno reso i prodotti più competitivi. Tuttavia, tali esportazioni sono state sostenute anche da rilevanti fattori macroeconomici.
Nel 2025, ad esempio, il RMB è sceso ai minimi degli ultimi dieci anni rispetto all’euro, nonostante la Cina registri surplus commerciali eccezionalmente elevati con l’Europa, destinati a superare i 400 miliardi di euro su base annua. Inoltre, la Cina attraversa ormai da oltre tre anni una fase di deflazione dei prezzi alla produzione, poiché l’output di molti settori industriali supera costantemente la capacità di assorbimento dei mercati domestici e globali. Nel loro insieme, questi fattori hanno reso ancora più difficile la concorrenza per le imprese europee.
Le reazioni non si sono fatte attendere. Nel 2024, la Cina è stata oggetto di un record di 198 indagini commerciali presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Molti di questi casi sono stati avviati da Paesi in via di sviluppo, a dimostrazione del fatto che le preoccupazioni sulle pratiche commerciali cinesi non riguardano soltanto le economie avanzate.
Per le imprese globali, questo scenario genera un vero e proprio dilemma. La Cina continua a offrire una capacità manifatturiera senza eguali e una solida base di innovazione. La sua catena di approvvigionamento altamente integrata rimane unica a livello mondiale. Eppure, i rischi sono in aumento.
Le controversie commerciali, l’incertezza normativa e le rimostranze di lungo corso sul trattamento non equo negli appalti pubblici stanno spingendo le aziende a riconsiderare il grado di dipendenza dalla Cina. La maggior parte delle imprese europee presenti nel Paese non prevede di abbandonarlo, ma sono sempre meno quelle disposte a collocarlo al centro delle proprie catene di approvvigionamento globali.
Gli shock recenti hanno rafforzato questo atteggiamento prudente. La pandemia di Covid-19 e la guerra in Ucraina hanno dimostrato quanto rapidamente le catene di approvvigionamento possano essere interrotte. Di conseguenza, molte aziende stanno abbandonando i modelli “just in time”, orientati a costi contenuti e velocità, per passare a strategie “just in case”, che privilegiano sicurezza e opzioni di riserva.
Ciò comporta spesso il ricorso a più fornitori e la riduzione della dipendenza da un singolo Paese — frequentemente la Cina, proprio a causa del suo peso dominante. Un esempio recente di queste interruzioni è rappresentato dai controlli alle esportazioni: l’imposizione di restrizioni sulle terre rare (Ree) e il successivo annuncio di controlli extraterritoriali hanno colto di sorpresa molte aziende europee e settori industriali chiave del continente. Secondo un’indagine della Camera di Commercio Europea in Cina, il 32% degli intervistati prevede di reperire i beni interessati in altri mercati, mentre il 36% intende collaborare con i fornitori per sviluppare capacità produttive al di fuori del Paese.
L’aumento delle esportazioni cinesi potrebbe spiegare perché il Paese sembri a proprio agio nel mantenere l’attuale direzione politica. Il fatto di essere riuscito a raggiungere gran parte degli obiettivi di autosufficienza interna, continuando al contempo ad accrescere la propria quota nel commercio globale, non è solo notevole, ma probabilmente percepito come una conferma che il modello attuale non necessita di aggiustamenti.
Tuttavia, il cambiamento appare sempre più inevitabile. Spostare fabbriche, miniere e reti logistiche richiede molti anni, e i governi — soprattutto in Europa — tendono a muoversi lentamente. Ciononostante, il messaggio che proviene dal resto del mondo è chiaro: l’aumento delle controversie commerciali indica che molti Paesi considerano le politiche cinesi dannose per i propri mercati, e che la pressione per un cambiamento è in crescita.
Non è ancora chiaro come l’UE risponderà a questa situazione, ma potrebbe decidere di sviluppare e attuare politiche più mirate che, analogamente a quelle cinesi, affrontino specifiche criticità legate alla resilienza industriale e alla sicurezza economica, seppur in forma più contenuta. Pur non essendo decisioni da prendere alla leggera, il contesto attuale dimostra che talvolta esse sono necessarie. Qualora l’Unione europea scegliesse questa strada, ciò non dovrebbe essere interpretato dalla Cina come un’ulteriore fonte di conflitto, bensì come la definizione di indispensabili linee guida per delineare l’ambito di una cooperazione futura più equilibrata e produttiva. (riproduzione riservata)
* vicepresidente nazionale della Camera di Commercio dell’Unione Europea in Cina, managing partner di D’Andrea & Partners Legal Counsel