Oggi su invito del premier malese Anwar Brahim, peraltro bersaglio di contestazioni da parte delle opposizioni, si tiene un incontro in Malesia tra i leader di Thailandia e Cambogia per negoziati di pace volti a raggiungere un cessate il fuoco immediato, hanno fatto sapere le autorità di Bangkok, dopo gli scontri della settimana scorsa che hanno già causato almeno 22 vittime in Thailandia, di cui 14 civili, secondo le autorità locali.
Secondo quanto riferito dalla Bbc, a guidare la delegazione thailandese sarà il primo ministro ad interim Phumtham Wechayachai, mentre il premier cambogiano Hun Manet guiderà la delegazione di Phnom Penh. Ai colloqui prenderanno parte anche funzionari di Stati Uniti e Cina.
Questo nuovo fronte di ostilità al confine, lungo 830 chilometri, tra i due paesi, innescato da antiche rivendicazioni territoriali, è complicato dall’appartenenza di entrambi a importanti organizzazioni transnazionali sottostanti a trattati quali l’Asean (Association of South- East Asian Nation) e il Rcep (Regional Comprehensive Economic Partnership).
Non sono fatti da sottovalutare: l’Asean aveva visto la luce nel 1967 con un gruppo di Stati membri fondatori tra cui la Thailandia; a questi nel corso degli anni se ne sono aggiunti altri e la Cambogia è uno degli ultimi affiliati nel 1999. Per quanto concerne il Rcep, entrato in vigore nel 2021, gli stati sottoscrittori sono quindici di cui la Cina oltre a dieci dell’area asiatica sud orientale e a quattro distribuiti nella zona di pertinenza del Pacifico (Australia, Nuova Zelanda, Giappone e Corea del Sud).
Questi due meccanismi hanno ben funzionato, soprattutto il Rcep ha portato a risultati importanti nel libero scambio di beni e servizi come attestano i dati consuntivi del 2024, che hanno registrato tra i Paesi membri un incremento del 7% degli scambi rispetto al 2023 e un progressivo innalzamento di 27 milioni di persone verso la classe media. L’obiettivo entro una decina di anni è quello di avere il 90% degli scambi a zero dazi in una visione multilaterale.
Oltre ai risultati economici tra i paesi membri, questo quadro geopolitico aveva impresso un’immagine di stabilità; tant’è che il volano innescato aveva creato una reazione a catena di sviluppo e stabilità. Recentemente, a seguito della guerra dei dazi, questa area da 3,5 miliardi di abitanti era stata vista, a seconda delle circostanze, o come antagonista alla Cina o come ad essa complementare (vedi Indonesia e Vietnam).
Nello scorso mese di febbraio il premier thailandese Paetongtarn Shinawatra, attualmente sospeso dall’incarico, aveva incontrato a Pechino il Presidente Xi Jinping in occasioni delle celebrazioni del 51° anniversario delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. In aprile, a sua volta il Presidente Xi Jinping aveva visitato il Sud est asiatico includendo nel suo tour Vietnam, Malesia e Cambogia.
La reazione della Cina allo scoppio delle ostilità è stata, nel giro di qualche giorno, di mettere in salco i suoi connazionali, richiamandoli in patria, e di ribadire di non volere conflitti nell’area ponendosi in una posizione di primus inter pares.
Anche Trump, prendendo la palla al balzo, ha preteso di assumere il ruolo di peace maker prospettando in caso di tregua con cessazione del conflitto, un trattamento di miglior favore nella controversia Trading Table dei dazi dal momento che attualmente i due Paesi sono soggetti ad una aliquota del 36%.
Questa repentina instabilità all’interno della penisola indocinese ha radici diverse, secondo la narrazione storica. Sul fronte commerciale la Cina dal XVIII secolo con i suoi traffici commerciali, aveva portato benefici a queste popolazioni; in seguito il Siam, l’attuale Thailandia ha sempre avuto, quale monarchia indipendente, simpatie prima con gli inglesi e successivamente, soprattutto a partire dalla seconda guerra mondiale e dagli anni a venire con gli Stati Uniti mentre Cambogia, Laos e Vietnam erano confluiti sotto la giurisdizione coloniale francese prima attraverso l’Unione Indocinese poi diventata Federazione Indocinese, affrancandosi solo nel XX secolo con un occhio politico verso la Cina.
Nonostante i perimetri definiti da trattati internazionali l’animus delle singole nazioni emerge a causa di atavici rancori non stemperati dalla globalizzazione che li ha assorbiti o cauterizzati attraverso le delocalizzazioni produttive e lo sfruttamento delle risorse naturalii.
Martin Wolf, il più accreditato giornalista economico del Financial Times, alla domanda su come vedeva la situazione attuale, ha risposto citando una delle due iscrizioni al Tempio di Apollo a Delfi: “Nulla di troppo”. L’iscrizione potrebbe essere di monito, dal momento che l'oggetto del contendere, tra Cambogia e Thailandia sono i tre antichi templi edificati durante da dinastia Khmer (cambogiana) e votati a Shiva, divinità induista, e proprio al tempio di Ta Muen sono avvenuti i combattimenti. (riproduzione riservata)
* corrispondente da Shanghai, dove vive e lavora da 30 anni