Mentre è in corso a Londra il secondo round di incontri tra Stati Uniti e Cina previsto dal meccanismo tecnico contenuto nel documento ginevrino di maggio e riattivato dalla telefonata della scorsa settimana tra Trump e Xi Jinping, sono stati pubblicati i dati dei primi cinque mesi del trade cinese.
L’Agenzia delle Dogane cinesi GAC (General Administration of custom) ha riportato che nei primi cinque mesi il commercio estero (esportazioni ed importazioni) è cresciuto del 2,5% anno su anno. In particolare le esportazioni sono cresciute del 7,2% mentre le importazioni sono calate del 3,8% sempre anno su anno.
Uno dei dati interessanti nella crescita delle esportazioni – che può essere considerata una conferma – è quello relativo alla tipologia di commodities di cui il 60% riguarda prodotti meccanici, elettrici ed elettronici.
L’Asean, rappresenta nei primi cinque mesi il mercato maggiore con un incremento del 9,1%; la Belt and Road Partners il 4,2% e l’Europa il 2,9% sempre anno su anno.
Per il mercato americano la media dei primi cinque mesi ha riscontrato un calo dell’8,1% , nel mese di maggio la punta negativa è stata del 34,52% e superiore a quella riscontrata ad aprile del 21%, mai così basse dal febbraio 2020, allora giustificato dalla pandemia.
Da questi dati si desume, oltre al consistente rafforzamento del surplus commerciale di Pechino, oltre 300 miliardi di dollari accumulati tra gennaio e aprile, un problea reale per il resto del mondo, che il mese di maggio non è stato un sufficiente volano di incremento delle esportazioni cinesi, vuoi per le riorganizzazioni della produzione, vuoi per i problemi contingenti correlati alla capacità di stiva dei diversi carriers che sono corsi ai ripari solo a inizio giugno.
Le speranze adesso sono riposte in giugno ma con la solita volatilità e vulnerabilità decisionale americana rimane una opacità dei mercati che penalizzano sia la domanda che l’offerta.
Sul tavolo di discussione londinese permangono a corollario due dossiers importanti: l’uno concerne il possibile ampliamento dell’esportazione cinese di terre rare che sta precludendo le attività delle catene di fornitura. La Cina al momento non è intenzionata a modificare le proprie decisioni a meno di stralciare dallo stesso tavolo restrizioni da parte americana. L’altro dossier riguarda l’esportazione americana di prodotti agricoli in particolar modo la soia, necessaria per l’alimentazione animale. La Cina, in questo recente periodo ha acquistato lo 0,74% a maggio, anno su anno, con un valore superiore del 22,46%
Questo stato delle cose continua ad essere una delle cause in Cina di minori consumi con una crescita inflattiva quasi nulla (+0,1%) mentre i prezzi alla produzione sono diminuiti del 3,3% rispetto al giugno 2023, secondo il National Bureau of Statistics.
Sta però affacciandosi in Cina un modello di retail che non è fondato sulla scontistica temporale o ai vari Black Friday bensì a politiche di riduzione permanente dei prezzi di vendita; due esempi di questi giorni: il primo riguarda la catena Starbucks che ha diminuito i prezzi sui prodotti più demanding in media di 5 yuan, circa 60 centesimi di euro.
La seconda riguarda brands quali Tiffany che ha diminuito i prezzi di vendita che oggi sono inferiori, se comparati a quelli di una piazza come Milano includendovi anche il 14% di Tax Refund. Anche altre case di moda di nicchia quali Vanessa Bruno, un brand francese, sta riducendo i prezzi per la prossima collezione autunno inverno del 60%.
Un capitolo a parte riguarda la guerra dei prezzi delle auto elettriche che investe problematiche transnazionali per le esportazioni e la costruzione di nuovi siti produttivi. La sensazione è di una staticità di mercato con una componente psicologica negativa per i consumatori cinesi che già aveva avuto le prime avvisaglie con la crisi immobiliare: compro oggi un bene e domani ha già perso valore. Si capisce anche come le importazioni in Cina siano costantemente in una fase decrescente. (riproduzione riservata)
* corrispondente da Shanghai, dove vive e lavora da 30 anni